Succede così sin da quando sono bambino. Parto dalla pianura padana, seguendo il tragitto inverso a quello degli invasori d’oltralpe, e arrivo a Cortina d’Ampezzo come fossi dentro una specie di sogno o fiaba incantata. Ad una decina di chilometri dall’arrivo, abbasso il finestrino della macchina, con la scusa di fumare una sigaretta, e mi faccio riempire i polmoni dall’aria di montagna. Anzi no, dell’aria di Cortina che, pur condividendo con l’aria delle altre montagne la purezza e la freschezza primitiva, riesce a distinguersi per l’intensità con cui è capace di penetrare nel profondo dell’anima.
Inizio ad assaporare l’aria, quasi masticandola, e passata la piccola valle appena sotto il trampolino di Zuel, volgo lo sguardo verso le 5 torri che iniziano a fare capolino da dietro le montagne come vecchie nonne che si affacciano alla porta della cucina per godere della vista dei loro nipotini così cresciuti dall’ultima volta in cui i loro ingrati genitori si sono ricordati di portarli in visita. Inevitabilmente, i pensieri volgono ai sedili posteriori della familiare di Papà e Mamma con cui tanti anni prima affrontavo il tragitto da Verona a Cortina, insieme ai regali di Babbo Natale nascosti nel bagagliaio dalle valigie e da grossi sacchetti pieni di addobbi natalizi.
Non mi limito a “vedere” i picchi frastagliati delle montagne che si stagliano tutto intorno al paese, ma li inizio da subito a “vivere”: li annuso, li ammiro, li sogno ad occhi aperti. Non è cambiato nulla da quando, in tenerissima età, sognavo folletti, principesse e personaggi fiabeschi che vivevano sopra quei picchi. Per me sono sempre lì, intatti e senza rughe, a custodire il buono dei boschi rigogliosi che proteggono con dolcezza il paese e la vallata.
Percorso anche il ripido vialetto d’ingresso della casa, parcheggio la macchina e spalanco la portiera, con la stessa brama con cui il giovane amante dischiude le gambe della sua amata. Non ho il tempo di pensare a raccogliere le mie cose dal piccolo vano della macchina, ho bisogno di lei, Cortina, della sua valle e delle sue forme ammalianti. Appena il piede tocca il suolo, lei mi ha già avvolto e io sono suo. Le narici, prima solo solleticate attraverso lo spiraglio del finestrino dal candore diffuso nell’aria dalla mia bella, sono ora pervase dal suo profumo inebriante. E così in un attimo dimentico che io sono io, che qualche ora prima ero alle prese con le preoccupazioni quotidiane imposte dalla vita, e ringiovanisco tra le braccia della mia montagna.
Sistemo i bagagli nella cameretta da letto che, dopo vari trasferimenti da nonna a nonno, da zio ad amico, da sorella a sorella, da cugino a cugina, è diventata la mia stanza, almeno provvisoriamente, e di nuovo sento la necessità di una seconda “sveltina”. Devo spalancare gli scuri alle finestre e poi aprire i vetri. Che la mia bella entri in casa e finanche nel mio letto. È li che io voglio che stia e che mi si conceda. In quel momento però devo farmi forza e aspettare la mattina seguente per soddisfare i miei pruriti carnali, quando, ancora sotto le coperte, qualcuno (parente stretto o amico o fidanzata) nell’intento di combattere la mia leggendaria pigrizia spalancherà le finestre senza sapere che, così facendo, renderà ancora più difficile il distacco dal mio giaciglio. I bambini lo sanno che non c’è niente di meglio che ficcarsi sotto le lenzuola del letto della mamma di buona mattina, con la stanza pervasa dal fresco di montagna, e giocare a risvegliarsi lentamente, godendo della contraddizione di un corpo caldo in una camera fredda, mentre le montagne premurose ti osservano di là dalla finestra e ti sorridono con tenerezza.
Prima del risveglio c’è la sera e poi la notte.
La sera scorre serena intorno al tavolo, mangiando bene, senza fretta, e parlando. Si trattano tutte le possibili sfumature di ciascun argomento, soppesando le parole e fermando l’attenzione su quei dettagli impossibili da cogliere al di fuori di questo magico contesto.
La famiglia sta intorno al tavolo e parla. Parla dei problemi di famiglia e di lavoro. Dialogare altrove diventa impossibile: troppi sono gli appigli del vivere quotidiano che ci costringono a non abbassare la guardia, a non perdere il contatto da quello che abbiamo deciso di diventare nel tempo.
Diversamente che in città, dove spesso il nervosismo e la fretta imposta dalle circostanze impediscono alla discussione di spostarsi da sterili posizioni di principio, qui in montagna i problemi vengono affrontati con speranza. Tutti sanno che questo è un luogo dove il parlare non è fine a se stesso ma è fecondo. Dove il confronto, anche se frutto di opinioni nettamente divergenti, centrerà l’unico obbiettivo cui può e deve aspirare. Riuscirà cioè a far meditare e far sorgere dubbi sulle proprie tradizionali convinzioni. Perché questo è il posto dove tutti condividono la stessa assoluta intimità. Perché questo è il ventre materno della nostra famiglia, pur non essendo la nostra abituale dimora. Perché intorno alla casa si sono radunati tutti i personaggi delle mie fiabe e ascoltano, aggrappati al tetto, alle grondaie e ai balconi, la nostra piccola comunità farsi veramente famiglia.
Terminate alcune pietanze e incartate le restanti per i giorni a seguire, la discussione si sposta sul divano.
Il divano in montagna è diverso da quello di città. Solo qui l’importanza di un plaid diventa decisiva. Solo qui la parola tepore assume veramente il suo significato proprio. Solo qui si avverte il piacere di assopirsi pur sforzandosi di rimanere vigili e disponibili al dialogo. Nessuno si offende se il proprio interlocutore manifesta segni di cedimento: lo si comprende e lo si invidia. Qui è la pace. Qui è la cosa più lontana possibile dall’angoscia del vivere quotidiano.
Ma nessuno è tanto ingenuo da permettere a Morfeo di condurlo nel sonno sino all’indomani su quel divano. Tutti anzi aspettano il momento in cui, scemate le parole ed esaurita almeno per quella sera la voglia di condividere se stessi e ascoltare gli altri, ci si alza e, in una sorta di processione stanca ma gioiosa e soddisfatta, ci si immerge nelle lenzuola del proprio letto come i palombari sono soliti fare nelle onde dei loro mari ricchi di tesori.
In quel letto si dorme. Intendo dire che si dorme realmente. Non come nel letto di città che ti seduce ma ben presto ti abbandona alle necessarie mansioni della vita. Solo in montagna si dorme senz’altro e si riposano le membra fiaccate dalla quotidianità e dalle debolezze di se stessi e degli altri.
In montagna è come se ci sia qualcuno che vegli su di te tutta la notte, attiri a sé i cattivi pensieri e li annienti lontano da te, rimboccandoti le calde coperte, accarezzandoti il volto al minimo segno di turbamento, coccolandoti come la mamma fa con il figlio. Forse sono gli stessi curiosi personaggi delle fiabe che ci hanno accompagnato sin dall’infanzia in questa terra piena di grazia e che non intendono permetterci di crescere del tutto, ben sapendo che crescere del tutto spesso significa allontanarsi da se stessi e rinnegare quello che si è nel profondo.
Il risveglio è dolce come una tavoletta di cioccolata al latte. Non solo perché, una volta aperte le imposte, assisto da spettatore non pagante all’eterna battaglia tra il fresco della valle e il caldo del mio letto, ma anche e soprattutto perché, per quanto delle volte sia difficile riconoscerlo, impazzisco di gioia all’idea di riabbracciare tutti, ben consapevole del fatto che almeno qui, in pigiama innanzi alle montagne che sembrano concedersi solo ai nostri occhi privilegiati, la felicità – per sua natura effimera e sfuggente – è perpetua e inossidabile.
Proprio qui dove nascono i miei primi ricordi: le gite interminabili, i panini al sacco, le borracce di alluminio ricoperte di pelle, quelle piccole dei bambini e quella grande di papà e mamma, le tovaglie di panno da stendere tra i fiori e le mucche, i cardi e le ortiche, i coltellini svizzeri multiuso, i tagli profondi e le corse al Codivilla, il motore diesel della Volvo acceso per un’ora nel parcheggio sotto casa, i tonfi goffi ma senza conseguenze, i voli dolorosi sulle lastre di ghiaccio, i denti spezzati a metà sulle scale di marmo, il legno accogliente delle baite, il kenny burger, il signor Gambasola o Gambadilegno, i giochi intorno alle sedie e quelli in scatola, il sollievo degli scarponi slacciati, i bagni rilassanti, la speranza che sia avanzata un po’ di acqua calda, le odiate calzamaglie, le patatine fritte, la “sacher torte”, i pattini sul ghiaccio, le lamine degli sci nuovi, le pedule strette e i knickerbockers, il mito della stella alpina, le piste del minigolf già vecchie anche quando erano nuove, lo stadio del ghiaccio, la saggezza di mamma Ada, le cassette musicali di tutti insieme appassionatamente e dei classici di Natale, la soffitta e le zuccate dolorosissime degli adulti, le labbra screpolate curate dal burro di cacao, le altalene dietro casa, i piedi congelati, l’herpes sulle labbra e lo Zovirax, Baita Fraina, Mietres e il Faloria, “el capel” delle Tofane, i temporali improvvisi nei boschi e le K-Way colorate, le lumache nascoste negli anfratti del muretto davanti alla porta di casa, la vecchia ferrovia, i tentativi di incisione dei nostri nomi sui rami trasformati in bastoni da passeggio, lo spauracchio delle vipere, le lacrime disperate per qualche rifiuto a fin di bene e quelle di gioia ghiacciate sul volto.
E l’amarezza della nostalgia per quello che è stato e mai più potrà essere è mitigata dalla visione dei vostri volti. Quelli di mia figlia e dei mie nipoti, cui brillano gli occhi della stessa magia che riesco a scorgere nelle nostre foto di quando eravamo bambini; quelli delle mie sorelle, dei cugini e di tutti i parenti che si beano di quella magia e ne vengono contagiati di riflesso, finalmente liberi da pensieri e preoccupazioni, contenti solo di essere qui, almeno per un po’, penetrati dalla forza naturale di queste montagne, felici di raccogliere a piene mani il bene che qui si respira e di conservarne un po’ per il ritorno; quelle belle di Papà e Mamma che ad anni di distanza dai miei primi ricordi mantengono intatto lo sguardo benevolo di chi, dopo avermi fatto il dono di portarmi qui tante volte, mi sta svelando, pur senza parole, il vero segreto che si cela dietro alla magia di queste montagne e della nostra famiglia; un segreto che, a dispetto della banalità di un termine oggi più che mai privo di senso, non credo possa essere definito con una parola diversa da amore.
Niccolò Giuffrè
Inizio ad assaporare l’aria, quasi masticandola, e passata la piccola valle appena sotto il trampolino di Zuel, volgo lo sguardo verso le 5 torri che iniziano a fare capolino da dietro le montagne come vecchie nonne che si affacciano alla porta della cucina per godere della vista dei loro nipotini così cresciuti dall’ultima volta in cui i loro ingrati genitori si sono ricordati di portarli in visita. Inevitabilmente, i pensieri volgono ai sedili posteriori della familiare di Papà e Mamma con cui tanti anni prima affrontavo il tragitto da Verona a Cortina, insieme ai regali di Babbo Natale nascosti nel bagagliaio dalle valigie e da grossi sacchetti pieni di addobbi natalizi.
Non mi limito a “vedere” i picchi frastagliati delle montagne che si stagliano tutto intorno al paese, ma li inizio da subito a “vivere”: li annuso, li ammiro, li sogno ad occhi aperti. Non è cambiato nulla da quando, in tenerissima età, sognavo folletti, principesse e personaggi fiabeschi che vivevano sopra quei picchi. Per me sono sempre lì, intatti e senza rughe, a custodire il buono dei boschi rigogliosi che proteggono con dolcezza il paese e la vallata.
Percorso anche il ripido vialetto d’ingresso della casa, parcheggio la macchina e spalanco la portiera, con la stessa brama con cui il giovane amante dischiude le gambe della sua amata. Non ho il tempo di pensare a raccogliere le mie cose dal piccolo vano della macchina, ho bisogno di lei, Cortina, della sua valle e delle sue forme ammalianti. Appena il piede tocca il suolo, lei mi ha già avvolto e io sono suo. Le narici, prima solo solleticate attraverso lo spiraglio del finestrino dal candore diffuso nell’aria dalla mia bella, sono ora pervase dal suo profumo inebriante. E così in un attimo dimentico che io sono io, che qualche ora prima ero alle prese con le preoccupazioni quotidiane imposte dalla vita, e ringiovanisco tra le braccia della mia montagna.
Sistemo i bagagli nella cameretta da letto che, dopo vari trasferimenti da nonna a nonno, da zio ad amico, da sorella a sorella, da cugino a cugina, è diventata la mia stanza, almeno provvisoriamente, e di nuovo sento la necessità di una seconda “sveltina”. Devo spalancare gli scuri alle finestre e poi aprire i vetri. Che la mia bella entri in casa e finanche nel mio letto. È li che io voglio che stia e che mi si conceda. In quel momento però devo farmi forza e aspettare la mattina seguente per soddisfare i miei pruriti carnali, quando, ancora sotto le coperte, qualcuno (parente stretto o amico o fidanzata) nell’intento di combattere la mia leggendaria pigrizia spalancherà le finestre senza sapere che, così facendo, renderà ancora più difficile il distacco dal mio giaciglio. I bambini lo sanno che non c’è niente di meglio che ficcarsi sotto le lenzuola del letto della mamma di buona mattina, con la stanza pervasa dal fresco di montagna, e giocare a risvegliarsi lentamente, godendo della contraddizione di un corpo caldo in una camera fredda, mentre le montagne premurose ti osservano di là dalla finestra e ti sorridono con tenerezza.
Prima del risveglio c’è la sera e poi la notte.
La sera scorre serena intorno al tavolo, mangiando bene, senza fretta, e parlando. Si trattano tutte le possibili sfumature di ciascun argomento, soppesando le parole e fermando l’attenzione su quei dettagli impossibili da cogliere al di fuori di questo magico contesto.
La famiglia sta intorno al tavolo e parla. Parla dei problemi di famiglia e di lavoro. Dialogare altrove diventa impossibile: troppi sono gli appigli del vivere quotidiano che ci costringono a non abbassare la guardia, a non perdere il contatto da quello che abbiamo deciso di diventare nel tempo.
Diversamente che in città, dove spesso il nervosismo e la fretta imposta dalle circostanze impediscono alla discussione di spostarsi da sterili posizioni di principio, qui in montagna i problemi vengono affrontati con speranza. Tutti sanno che questo è un luogo dove il parlare non è fine a se stesso ma è fecondo. Dove il confronto, anche se frutto di opinioni nettamente divergenti, centrerà l’unico obbiettivo cui può e deve aspirare. Riuscirà cioè a far meditare e far sorgere dubbi sulle proprie tradizionali convinzioni. Perché questo è il posto dove tutti condividono la stessa assoluta intimità. Perché questo è il ventre materno della nostra famiglia, pur non essendo la nostra abituale dimora. Perché intorno alla casa si sono radunati tutti i personaggi delle mie fiabe e ascoltano, aggrappati al tetto, alle grondaie e ai balconi, la nostra piccola comunità farsi veramente famiglia.
Terminate alcune pietanze e incartate le restanti per i giorni a seguire, la discussione si sposta sul divano.
Il divano in montagna è diverso da quello di città. Solo qui l’importanza di un plaid diventa decisiva. Solo qui la parola tepore assume veramente il suo significato proprio. Solo qui si avverte il piacere di assopirsi pur sforzandosi di rimanere vigili e disponibili al dialogo. Nessuno si offende se il proprio interlocutore manifesta segni di cedimento: lo si comprende e lo si invidia. Qui è la pace. Qui è la cosa più lontana possibile dall’angoscia del vivere quotidiano.
Ma nessuno è tanto ingenuo da permettere a Morfeo di condurlo nel sonno sino all’indomani su quel divano. Tutti anzi aspettano il momento in cui, scemate le parole ed esaurita almeno per quella sera la voglia di condividere se stessi e ascoltare gli altri, ci si alza e, in una sorta di processione stanca ma gioiosa e soddisfatta, ci si immerge nelle lenzuola del proprio letto come i palombari sono soliti fare nelle onde dei loro mari ricchi di tesori.
In quel letto si dorme. Intendo dire che si dorme realmente. Non come nel letto di città che ti seduce ma ben presto ti abbandona alle necessarie mansioni della vita. Solo in montagna si dorme senz’altro e si riposano le membra fiaccate dalla quotidianità e dalle debolezze di se stessi e degli altri.
In montagna è come se ci sia qualcuno che vegli su di te tutta la notte, attiri a sé i cattivi pensieri e li annienti lontano da te, rimboccandoti le calde coperte, accarezzandoti il volto al minimo segno di turbamento, coccolandoti come la mamma fa con il figlio. Forse sono gli stessi curiosi personaggi delle fiabe che ci hanno accompagnato sin dall’infanzia in questa terra piena di grazia e che non intendono permetterci di crescere del tutto, ben sapendo che crescere del tutto spesso significa allontanarsi da se stessi e rinnegare quello che si è nel profondo.
Il risveglio è dolce come una tavoletta di cioccolata al latte. Non solo perché, una volta aperte le imposte, assisto da spettatore non pagante all’eterna battaglia tra il fresco della valle e il caldo del mio letto, ma anche e soprattutto perché, per quanto delle volte sia difficile riconoscerlo, impazzisco di gioia all’idea di riabbracciare tutti, ben consapevole del fatto che almeno qui, in pigiama innanzi alle montagne che sembrano concedersi solo ai nostri occhi privilegiati, la felicità – per sua natura effimera e sfuggente – è perpetua e inossidabile.
Proprio qui dove nascono i miei primi ricordi: le gite interminabili, i panini al sacco, le borracce di alluminio ricoperte di pelle, quelle piccole dei bambini e quella grande di papà e mamma, le tovaglie di panno da stendere tra i fiori e le mucche, i cardi e le ortiche, i coltellini svizzeri multiuso, i tagli profondi e le corse al Codivilla, il motore diesel della Volvo acceso per un’ora nel parcheggio sotto casa, i tonfi goffi ma senza conseguenze, i voli dolorosi sulle lastre di ghiaccio, i denti spezzati a metà sulle scale di marmo, il legno accogliente delle baite, il kenny burger, il signor Gambasola o Gambadilegno, i giochi intorno alle sedie e quelli in scatola, il sollievo degli scarponi slacciati, i bagni rilassanti, la speranza che sia avanzata un po’ di acqua calda, le odiate calzamaglie, le patatine fritte, la “sacher torte”, i pattini sul ghiaccio, le lamine degli sci nuovi, le pedule strette e i knickerbockers, il mito della stella alpina, le piste del minigolf già vecchie anche quando erano nuove, lo stadio del ghiaccio, la saggezza di mamma Ada, le cassette musicali di tutti insieme appassionatamente e dei classici di Natale, la soffitta e le zuccate dolorosissime degli adulti, le labbra screpolate curate dal burro di cacao, le altalene dietro casa, i piedi congelati, l’herpes sulle labbra e lo Zovirax, Baita Fraina, Mietres e il Faloria, “el capel” delle Tofane, i temporali improvvisi nei boschi e le K-Way colorate, le lumache nascoste negli anfratti del muretto davanti alla porta di casa, la vecchia ferrovia, i tentativi di incisione dei nostri nomi sui rami trasformati in bastoni da passeggio, lo spauracchio delle vipere, le lacrime disperate per qualche rifiuto a fin di bene e quelle di gioia ghiacciate sul volto.
E l’amarezza della nostalgia per quello che è stato e mai più potrà essere è mitigata dalla visione dei vostri volti. Quelli di mia figlia e dei mie nipoti, cui brillano gli occhi della stessa magia che riesco a scorgere nelle nostre foto di quando eravamo bambini; quelli delle mie sorelle, dei cugini e di tutti i parenti che si beano di quella magia e ne vengono contagiati di riflesso, finalmente liberi da pensieri e preoccupazioni, contenti solo di essere qui, almeno per un po’, penetrati dalla forza naturale di queste montagne, felici di raccogliere a piene mani il bene che qui si respira e di conservarne un po’ per il ritorno; quelle belle di Papà e Mamma che ad anni di distanza dai miei primi ricordi mantengono intatto lo sguardo benevolo di chi, dopo avermi fatto il dono di portarmi qui tante volte, mi sta svelando, pur senza parole, il vero segreto che si cela dietro alla magia di queste montagne e della nostra famiglia; un segreto che, a dispetto della banalità di un termine oggi più che mai privo di senso, non credo possa essere definito con una parola diversa da amore.
Niccolò Giuffrè